A volte c’è uno spazio tra un libro e un lettore,
difficile da colmare.
Io e Becky ci siamo guardate per giorni,
lei ferma,
io le giravo attorno.
Schiusa tra noi, ancora sento, la domanda.

*

La guerra di Becky mi arriva in un tempo stanco. Stanco di spari e sirene, di violenza, di dolore e paura. Faticavo ad alzare le braccia per incontrare le sue. Leggendo mi chiedevo, dove lo metto questo racconto? Con che occhi lo guardo? Ho spazio dentro me per accoglierlo? C’è posto per il dolore degli altri, quando siamo pieni del nostro?

Bisognerà trovarlo questo posto, mi son detta. Bisognerà iniziare da qualche parte a mettere ordine nel caos, prenderci cura del passato, del presente, di noi. Curare, curarsi. Le memorie siamo noi.

Altrimenti che facciamo, lasciamo cadere tutte le voci della memoria, con la fatica che s’è fatta per tirarle fuori dal buio, dalle cantine, dalle memorie del tempo e dei luoghi, dai cuori? Non possiamo farlo. Spegnere la luce, togliere la voce.

Antonio Ferrara ha acceso luce, ha dato corpo e voce all’ennesimo Olocausto dimenticato. Una storia vera quella di Becky e della sua famiglia, dei loro amici fuggiti da Salonicco e riparati sul lago Maggiore. Riparati per poco.

Riesce, Antonio, con delicatezza compassionevole, a dare voce, forma, figura. Ogni pagina è quieta, come si potesse stare dentro, darsi tempo e fermarlo, il tempo. Tutto è attutito, ma presente, come visto da un acquario, da dentro il lago. Tanti occhi, aperti e chiusi. Sguardi, silenzi, porte sbattute a metà. Fotogrammi.

Un tempo sospeso, una memoria si ripete all’infinito, non vuole sciogliersi nel vuoto.

Vuole essere raccontata.

Fatico a scrivere di questa storia, invece di parole mi viene su acqua, continuo a deglutire. Un lago fondo e cupo risale, qualcosa torna su, parole silenziose e mute, affogate. Ecco. Qui sul tavolo per giorni, e non so mai come metterle insieme, come stringere tra le mani l’acqua, tirarne fuori parole. Antonio l’ha fatto.

Le memorie di Becky sono un racconto necessario, e prezioso.

Le illustrazioni e gli sfondi rimandano una grana e un colore particolare: accoglie, non sbatte mai. Non c’è bianco che rifletta e butti addosso parole e immagini come sberle, con troppa forza. Forse, tutto è un po’ assorbito, così fa meno male.

La voce del lago, ha trovato voce.

Elena Elle Comana

La recensione è presente anche su Abracadabra libri