Questo racconto è un gioiello.

Ha tante sfaccettature che non so, se riuscirò ad elencarle tutte. Una parte, ci posso provare.

L’impressione, leggendolo, è di meraviglia per la quantità di facce che vengono disposte una accanto all’altra, in diverse direzioni, tutte parti della stessa pietra lavorata, ma diverse, diverse, alcune necessariamente contrapposte.

Che siano disposte per volontà, o per caso, quelle facce che riflettono e illuminano il mondo, chi può dirlo. A volte è fato, destino. A volte anima interna che sceglie di esprimere la propria luce, o la propria ombra. A volte è la luce stessa che cambia e illumina una parte, lasciando all’oscuro l’altra limitandone la visione. Tutte fanno parte di un identico destino, interconnesse, la storia dell’uno si concatena nell’altro e influenza il tutto. Inesorabilmente, fino alla fine.

Il punto di vista da cui è raccontata la storia nazista è rovesciato, inusuale: non dalla parte degli ebrei, dei partigiani o dei perseguitati, ma dalla parte della figlia di un generale tedesco. Come un bocciolo posato delicato, al centro dell’oscuro.

Ma un bocciolo che guardasse da quell’interno non riuscirebbe a vedere tutto il nero, forse perché, incredibilmente, non tutto è nero. Ci sono dei genitori, dei gesti amorevoli. C’è l’odore del pane, la bellezza dei fiori, la carità verso l’altro, la fede nella patria, la certezza nella vittoria e nella giustizia di una guerra santa. La vertigine dell’orientarsi in quella narrazione di mondo che è, a suo modo, perfetta.

C’è gentilezza in questo raccontare. Gentilezza di sguardo, di direzione. Lo sguardo si è fatto innocente e da lì racconta, raccogliendo pezzo a pezzo, briciole di pane, frasi, eventi. Poi li mette insieme, per capire. A volte – sempre più – la comprensione del disegno esterno porta frattura nella dimensione interna. Non è una comprensione che completa questa, è una comprensione che spezza, distrugge, scaraventa nel vuoto.

È l’urlo di Munch.

La scrittura è a misura di undicenne, scorrevole, semplice; lo sguardo gentile riesce ad accompagnare in ogni dove. Proprio questa è la grandezza: il racconto ci accompagna a vedere e toccare con mano tutte le atrocità naziste, ma non ci lascia in loro balìa, senza protezioni, troppo esposti. Le mostra in una misura forte e precisa, ma possibile, che prelude a tutto il resto senza abbandonarci nell’orrore. Una comprensione sigillata, come protetta in una bolla.

Ero immersa nel racconto, nel salotto di casa loro insieme alla bambina e ai familiari, in un momento così forte e sospeso che ho avuto paura di essere scoperta, nei miei pensieri. Volevo andare avanti a leggere ma avevo la pelle d’oca al pensiero che vedessero le mie espressioni. Ho quindi cercato un punto di vista diverso, tra i tanti proposti, e mi son vista dentro lì: sulla mensola del camino, ero diventata una zuccheriera di porcellana bianca. Non mi avrebbero scoperto di sicuro, non potevo far trapelare nessuna emozione. Da lì, sono andata avanti a guardare e ascoltare. Non vista.

Un continuo punto di vista rovesciato, e rovesciato e rovesciato ancora. Ho sentito le verità di tutti. Così le atrocità.

L’immagine nettissima che ho di tutto il racconto, è come di una palla di cristallo, con all’interno piani e scale in movimento, tipo Escher. La palla rotola sul pavimento, rotolando tutto si mette in azione e si incasella, il sopra diventa sotto, il fuori scivola dentro. Lo sguardo è necessariamente obliquo. Dall’interno come un suono, un campanellino che musica il tempo, avanti e indietro, veloce e lento…

Daniela Palumbo è riuscita a raccontare mille aspetti necessari, li ha messi in luce chiaramente, li ha concatenati uno all’altro, li ha mostrati come espressione del vivere umano. Il bene, il male. La banalità del male.

Leggendo ero stupefatta nel vedere con quale estensione e completezza sono delineate le dinamiche psicologiche che fondano e accompagnano i momenti oscuri della storia, nel grandissimo e nel piccolissimo. Son sempre quelle. Le vediamo anche oggi, nel grandissimo e nel piccolissimo del nostro mondo e di noi stessi. Si basano sulla fragilità umana, sul bisogno di appartenenza a un gruppo. Sulla leggerezza del concatenare gesti feroci uno dietro l’altro, che diventano sempre più grandi, nel benestare comune fino alla deriva. All’abisso.

A un passo da un mondo perfetto.

E’ un monito questo, per tutti. Non è solo ricordo di ciò che è successo, è racconto di quanto è facile scivolare nell’ombra, che è proprio qui accanto. E’ così semplice incamminarsi dalla parte sbagliata, dolorosa della storia. A volte basta seguire la madre, il padre, il profumo del pane, i fiori, gli amici, gli insegnanti, i sacerdoti di inflessibili verità. È facile credere, è facile confondersi e rimanere confusi. È facile dare spazio alla cattiveria che passo passo diventa ferocia.

È facile perdersi.

In questa storia si impara a farsi le domande giuste, a vedere che si possono dare diverse risposte, e non tutte sono giuste. Bisogna scegliere e agire di conseguenza. Bisogna conoscere per riconoscere, dentro e fuori di noi. Niente è più importante di questo.

Un lavoro di grande maestria, amore per la scrittura e per la rievocazione storica, perfetto per offrire grandi consapevolezze dell’essere umano e inumano, a noi e ai nostri ragazzi. Uno strumento preziosissimo, profondo e completo.

Tanti sono i modi di raccontare la storia.

Come la si racconta,

fa la differenza.

Questi son racconti che bisogna darsi la pena di scrivere, e di leggere.

Grazie

Elena Elle Comana

La recensione è presente anche su Abracadabra libri