Protagora affermava: l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono. Se la definizione di ‘misura’ trova nella sfera sensoriale della percezione individuale il suo significato più radicato, la desunta conseguenza sarà che anche un’esperienza collettiva nefasta come la Seconda Guerra Mondiale si può astrarre dalla sua universalità di male assoluto per recuperare un vissuto positivo.
È ciò che avviene in La verità che ricordavo scritto da Livio Milanesio, edito da Codice Edizioni. La testimonianza di una prospettiva altra rispetto all’orrore, alla desolazione e all’inumanità della prigionia; una storia che regala al lettore un reale scrutato con l’occhio di chi, tra gli sfortunati, lo è stato un po’ meno degli altri.
Dino, protagonista della storia e padre dell’autore, sperimenta gli anni più bui dell’Europa e tra il 1943 e il 1945 guarda il mondo da una finestra che non è azzardato definire “dorata”, in una Germania afflitta dalla devastazione più cupa. Deportato con suo fratello Michele dalle campagne del Piemonte a una collina tedesca nei pressi di Dresda, luogo che diviene presto il centro del suo personale universo, Dino inizia a lavorare come sguattero al circolo degli ufficiali tedeschi a Königsbrück, Michele come operaio alla fabbrica di Chemnitz. Gli spazi fisici e geografici delle rispettive prigionie sono relativamente vicini, ma il vissuto emotivo che accompagnerà le stesse sarà uno l’opposto dell’altro. Per Dino inizia un periodo di sperimentazione che lo porta ad aspirare ad una vera divisa da cameriere, a sfidare il pericolo per salvaguardare la propria incolumità, a provare il primo amore tra le braccia della tedesca Greta.
Antieroe per eccellenza, sceglie di non vedere, di non sapere, di non capire quello che accade oltre alla collina, il suo perimetro di salvezza. La voce della sua coscienza rivive attraverso il verbo di un nano immaginario che appare nei momenti di maggiore indecisione, difficoltà, smarrimento. Un essere dalla parvenza e dall’indole nazista che però non manca di spiattellare al giovane con puntualità la sua debolezza e il suo opportunismo. Come quando Dino mostra una tiepida ma prevedibile assuefazione alle logiche del potere, che lui esercita, anche se mai fino in fondo, su altri personaggi quando si accorge di non essere più l’ultimo tra gli ultimi.
Al ricongiungimento con suo fratello la prova della condizione diversa nella quale Dino ha trascorso quei mesi. La sua fisicità nella lunga carovana che riporta tutti lentamente a casa costituisce la testimonianza del suo ruolo di privilegiato nel gioco crudo della guerra, e lui se ne vergogna. I solchi, le rughe, la magrezza degli altri sono lo specchio nel quale è costretto a guardare il suo passato recente, rendendosi drammaticamente conto di quanto la fortuna sia stata sua complice. In un attimo vorrebbe uniformarsi agli altri, recuperare l’esperienza della sofferenza e della negazione, per compiere quella marcia provando anche lui il legittimo sollievo della fine della guerra. E scacciare la tristezza, scomoda e angosciante, per quel posto in collina, il suo lavoro e Greta. Finiti per sempre.
La lingua, asciutta ed essenziale, non priva però di riferimenti linguistici riconducibili a quegli anni, sigilla questo romanzo nella bibliografia delle testimonianze più coraggiose e umane che negli ultimi anni abbiamo ereditato dalla memoria collettiva del tempo che fu.
Visivamente le descrizioni, quella del protagonista che ritrova il suo corpo dopo lo smarrimento iniziale della deportazione, della guerra che “non si spegne come un interruttore”, della Mittelstrasse percorsa da serpentine di corpi grigi, sono immagini che contribuiscono a creare una realtà dove i suoni spesso vivono ovattati, gli esseri che si nutrono tra le pagine sospesi e la guerra percepita come qualcosa di lontano, accompagnata da una consapevolezza poco decifrabile. “Un bombardamento, il primo. Che emozione. Niente di grave. Gli spettatori sulla terrazza si strinsero gli uni agli altri. Dino sfiorò il gomito a Greta per riaccompagnarla dentro, ma la ragazza restò immobile, stregata dai bagliori pulsanti che provenivano da Dresda.”
Pare che tutto il libro tenda naturalmente a culminare nel suo climax più onesto, quando la voce narrante riflette su cosa sia stato giusto e cosa sbagliato per il protagonista; da che parte stare, che verità raccontare. “Nei bei tempi della sua ingenuità aveva creduto alla verità che gli avevano raccontato. Una verità che la guerra è bella e giusta, fatta da bianchi contro i neri, puri contro impuri, civiltà contro barbarie… Lo avevano portato a casa del diavolo e lì aveva sperato che quella posizione privilegiata potesse offrirgli una vista talmente ravvicinata e chiara da comprendere appieno, in ogni minimo dettaglio, da che parte stare.”
Se questo romanzo può suggerire fortunatissimi copioni di benignana memoria o sopravvalutate narrazioni, poi portate sullo schermo, come Il bambino con il pigiama a righe, quello di cui è mancante costituisce proprio il suo punto di maggiore forza: l’eroe. Colui che inventa un universo che non esiste solo per chiudere gli occhi al figlio sulle barbarie, quello che si addentra nel buio del lager solo per aiutare il suo amico; l’eroe che per definizione antepone l’altro a sé stesso, morendo per una causa giusta.
Il protagonista tratteggiato da Milanesio è uno di noi, uno che grazie alla sua mancanza di eroismo ha cercato di vivere e sopravvivere nell’inferno, come avrebbe fatto chiunque al posto suo. Portando la sua pelle eroicamente a casa e consentendo a noi, capaci di comprendere solo marginalmente e spesso attraverso modelli poco realistici, ciò che è veramente stato.
Angela Vecchione
La recensione è stata pubblicata il 5 febbraio 2018 su exlibris20