La repubblica delle farfalle è il primo romanzo sulla Shoah che mi sconvolge per la bellezza del come è scritto, non per l’orrore di quel che è scritto, considerando pure che nulla del reale viene mitigato o edulcorato.

C’è un valore aggiunto, che vira il racconto realistico verso un orizzonte ammantato di mistero: il mistero dell’essere umano che riesce a tener salda la vita aggrappandosi a scampoli di nulla, da cui riesce a trarre un scheggia di bellezza che salva dalla follia. Forse è questo che impedisce al mondo di precipitare nell’orrore del mondo.

Piccole sorsate di immenso mistero. Una goccia che riflette i raggi del sole, una foglia che cade al perfetto momento.

Non son arrivata nemmeno a metà, ma non ho fretta di uscirne. Più leggo più rallento, torno indietro, rimango immersa. Le pagine che mancano paiono aumentare, come pane che lievita piano, gonfiandosi, prendendo forma piena che necessita di tempo per esprimersi matura.

Mi prendo pause come questa. Se fumassi sarebbero il tempo di una sigaretta gustata all’aperto, sguardo all’orizzonte, pensieri che si spandono col fumo. Non fumando mi siedo, a spandere i miei pensieri tra le righe.

Il primo stupore è stato a pag.10. Ero lì che camminavo lenta nella via, nascondendomi col cuore che batteva, e improvvisamente camminavo lenta col cuore che batteva in un’altra via, identica emozione. – Ma dove sono? – mi son chiesta, riconoscendo perfettamente la seconda strada ma impiegando qualche secondo per capire a quale mondo apparteneva.

Ero caduta in un altro racconto, la via di 1984, la sera col batticuore, con le guardie alle calcagna, cercando di raggiungere la meta. Come una curva presa larga che mi ha portato fuori strada in un’altra storia, dalla quale mi son poi tirata fuori, – coi gomiti in salita – rientrando nei binari di Terezín , e mi son chiesta: – Che narrazione è mai questa che mi fa andare oltre la storia che leggo, cadere in altre storie su medesimi piani in tempi differenti?

Ho passato poi la notte sentendomi dentro quel mondo, di cui mi rimaneva lo stupore della dolcezza. Sentivo e vedevo chiaramente il muro nero, il disperante detto e quello duro sopra le righe, ma l’emozione forte era di dolcezza. – Che storia è mai questa che mi racconta la Shoah e mi lascia un’impressione forte di dolcezza?

( Lo so dovrei fare lo sforzo di raccontarvi le ossa e le righe di questo libro, ma è del 2012, volete non trovarne di informazioni decenti in internet? )

L’idea che mi son fatta è che l’autore abbia voluto dare voce ai ragazzi di Terezín, e lo ha fatto con amore verso di loro. Ha raccontato la storia vera, basata sui racconti veri che i ragazzi hanno trascritto nel giornale che redigevano nel campo, ed è come avesse voluto raccontarla donandola a loro.

Questo racconto della Shoah è passato dal cuore e dalla bocca di un cantastorie. Ha il potere un cantastorie di creare e curare con il suo raccontare? Credo di sì.

Credo che con questo racconto Matteo Corradini si sia avvicinato ai ragazzi di Terezín e abbia voluto tessere per loro una storia, come la raccontasse a loro prima che a noi. Come fosse seduto alla finestra della camerata, la sera, al debole chiarore della luna, e raccontasse a loro la loro storia, la loro giornata, portando alla luce l’infinitamente piccola bellezza che c’era, vedendola nei loro occhi sgranati, nei capelli scarmigliati, nei piedi strascicati al buio, nei piccoli scoppi di risa, nelle lacrime gessose, nel loro alzarsi di notte per scrivere e ridere di una regina bisbetica, nel prendersi cura uno dell’altro.

Li ha tessuti vicini uno all’altro, senza brecce di solitudine che non fossero riempite dallo stare accanto, dal prendersi cura vicendevolmente. Li ha carezzati continuamente nel suo scrivere. Li ha abbracciati infinite volte.

Ha acceso luci dovunque per loro, li ha mostrati a noi e a loro stessi morbidi nel miracolo del chiarore di tanti lumini, recuperati chissà dove ma di una luce resistente quanto tremolante, strabiliante, sempre presente.

E’ possibile entrare in connessione, a decenni di distanza, con bambini e ragazzi del campo di Terezín, tenergli compagnia, raccontare loro la storia della sera, farli sentire compresi e amati, avvolti in una grande carezza che raccontando consola? Accendere luce ovunque, per loro, non per noi. Per loro che aspettano calore, al buio e al freddo, da allora.

Curarsi delle memorie è anche curare le memorie.

Il romanzo dei ragazzi di Terezín non solo racconta le memorie,

va lì,

e le cura.

Elena Elle Comana

La recensione è presente anche sul blog Abracadabra libri

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